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Le Riprese Planetarie

Tecniche e metodologie per fotografare i pianeti






Ottenere delle belle immagini dei pianeti o della Luna non è un'impresa semplice: sono necessari impegno, dedizione e molta pazienza oltre ad una strumentazione adeguata ed una certa esperienza. Di contro è possibile, anche con strumenti modesti, ottenere risultati più gratificanti che ripagano senza dubbio le ore notturne impiegate in questa nobile arte. Perchè, in effetti, più che un'attività tecnico-scientifica l'astrofotografia planetaria somiglia a mio avviso ad un'arte, dove ognuno ci mette un pò del suo e spesso le tecniche di ripresa ed elaborazione variano seconda dei gusti e delle preferenze dell'appassionato di astronomia, in accordo con le sue disponibilità in termini di strumentazione e di tempo. È indubbio però, in ogni caso, che l'ottenimento di buoni risultati va di pari passo con l'impegno, le conoscenze specifiche e l'esperienza.
Dopo diversi anni che mi occupo di riprese planetarie con diversi strumenti e metodi, credo di aver accumulato un'esperienza di base che desidero condividere con tutti coloro che stanno iniziando questo percorso e che spesso si trovano impantanati in problematiche simili a quelle da me affrontate in passato: non mi ritengo, in nessun caso, un esperto, il mio desiderio è solo quello di aiutare altre persone per quel poco che posso.






La strumentazione



N Sgombrato quindi il campo da queste poche ma necessarie premesse, mi permetto di avventurarmi nella trattazione sulla ripresa ed elaborazione delle immagini planetarie, dal mio punto di vista; in base ai principi appena elencati appare chiaro che la mia chiave di lettura non è da considerarsi univoca: lo stesso problema può essere affrontato e risolto in modi molto diversi, io offro solo una metodologia che può fornire al lettore una traccia di riferimento per operare al meglio. Potrà seguire i miei procedimenti passo per passo, oppure utilizzare le mie soluzioni per avere un'idea di come costruire e raffinare la propria tecniche. Cominciamo quindi elencando la strumentazione che io utilizzo, argomento che ci permetterà anche di affrontare un poco di teoria, noiosa ma a mio avviso assolutamente necessaria: fino a poco tempo fa operavo con un telescopio Schmidt-Cassegrain di marca Meade, del diametro di 200mm e di 2000mm di lunghezza focale. Uno strumento del genere, per chi è un neofita, rappresenta un buon compromesso sia per l'osservazione di pianeti e Luna sia per gli oggetti più deboli del profondo cielo, cosi' come vengono definiti, ovvero galassie, nebulose ed ammassi stellari. In realtà il rapporto d'apertura pari a 10, indicato normalmente come f/10 e che rappresenta la lunghezza focale diviso il diametro dell'obiettivo, lo rende sicuramente più adatto alle osservazioni planetarie, tuttavia questi strumenti hanno ampiamente dimostrato di cavarsela abbastanza bene anche sugli altri fronti dell'osservazione astronomica, sia visuale che fotografica.

Si tratta, ovviamente, di un telescopio a specchio, dove l'immagine degli astri entra dentro il tubo ottico passando attraverso una lastra correttrice (una sorta di lente) che devia i raggi luminosi di quel tanto che basta per essere corretti prima che vadano a riflettersi sullo specchio principale concavo e di profilo sferico posto sul fondo del tubo.
Questi raggi luminosi vengono quindi concentrati su uno specchio più piccolo sempre di profilo sferico ma convesso, incastrato al centro della lastra correttrice: a questo punto i raggi vengono rinviati nuovamente verso lo specchio principale, che però al suo centro è forato e dietro al quale si forma l'immagine finale che può essere esaminata con un oculare o registrata con una fotocamera o camere specifiche dedicate all'astronomia.

Questo strumento mi ha regalato, nei venti anni di suo utilizzo, delle grandi soddisfazioni, recentemente però ho cercato di migliorare un poco nelle prestazioni, per cui ho acquistato un telescopio del diametro di 250mm e lunghezza focale 1250mm, con rapporto focale quindi pari a f/5. Questo nuovo telescopio, pur essendo sempre a specchio, ha una configurazione ottica profondamente diversa, chiamata Newton: si tratta di uno schema ottico molto semplice ma geniale, ideato proprio da Isaac Newton, lo scopritore della legge di gravitazione universale e di molte altre cose. I raggi luminosi degli astri entrano dentro il tubo ottico che è aperto e vengono riflessi dallo specchio principale posto sul fondo e che ha un profilo parabolico; questi vengono concentrati su uno specchio piano più piccolo, posto quasi all'inizio del tubo ottico, ed inclinato di 45 gradi. In questo modo l'immagine degli astri viene portata sul lato del tubo che è ovviamente forato e dove trova posto il portaoculari con gli adattatori per fotocamere e camere astronomiche.
Rispetto allo Schmidt-Cassegrain il nuovo telescopio ha il pregio di avere un rapporto focale più piccolo ed essere quindi più versatile sul fronte degli oggetti del profondo cielo, di contro ha una lunghezza focale nettamente inferiore, il che può rappresentare in teoria un problema per le riprese planetarie, dove è richiesto un certo ingrandimento per cercare di evidenziare le caratteristiche più minute dei pianeti o della Luna.

Si tratta però di un falso problema: in astronomia infatti quello che conta più di tutto è la capacità del telescopio di raccogliere quanta più luce possibile, quindi di avere uno specchio principale più grande possibile, a condizione di poter sfruttare quel diametro. Come conseguenza ne risulta che più è grande lo specchio di un telescopio più aumenta il suo potere risolutivo, come si può facilmente calcolare dalla formula empirica:

[1]     Pr = 120 / D


dove D è il diametro dell'obiettivo del telescopio, specchio o lente che sia. In realtà la formula sarebbe un poco più complessa e dipenderebbe anche dalla lunghezza d'onda della luce osservata, tuttavia per i nostri scopi la formula proposta è più che sufficiente. Il risultato è espresso in secondi d'arco, ovvero in tremilaseicentesimi di grado, dove 1 secondo d'arco (indicato come 1") corrisponde a 1/3600 di grado: vediamo quindi che un telescopio da 200mm di diametro avrà un potere risolutivo pari a 0,6" mentre uno da 250mm avrà 0,48". Sembrerebbe una differenza lieve, invece è piuttosto rilevate a patto però che sia soddisfatta almeno un'altra condizione: che le condizioni dell'atmosfera del luogo dove viene effettuata l'osservazione siano tali per cui il potere risolutivo del telescopio possa essere pienamente sfruttato.

Come si sa la nostra atmosfera si comporta come un fluido caotico, in cui sono presenti correnti calde e fredde oltre a pulviscolo e altre impurità. L'agitazione dell'atmosfera o turbolenza viene definita con il termine inglese "seening" e ha un valore più alto se questa è molto agitata; normalmente si riconosce una scala da 1 a 5 secondo un sistema empirico ideato dall'astronomo greco naturalizzato francese Eugenios Antoniadis(1870-1944) Grande astronomo e uno dei principali osservatori di Marte di tutti i tempi. All'inizio Antoniadi sostenne l'ipotesi dell'esistenza dei canali marziani ma, in seguito alle osservazioni compiute all'osservatorio di Parigi durante l'opposizione di Marte del 1909, concluse che si trattava solo di illusioni ottiche e definita Scala di AntoniadiLa scala Antoniadi è un sistema utilizzato dagli astrofili per classificare le condizioni meteorologiche durante la visualizzazione delle stelle di notte. . Nell'immagine riportata a fianco è riprodotto l'aspetto di una stella, come vista attraverso un telescopio, secondo diverse condizioni di seeing: la scala riportata nell'immagine, pur facendo riferiento al sistema di Antoniadi, è codificata in maniera inversa ma la sostanza del discorso non cambia; di seguito invece (a sinistra) una tabella rappresentativa che riporta la scala corretta, secondo la codifica originale dell'astronomo greco e il suo normale uso corrente.


Di fatto si osserva che il potere risolutivo di un telescopio di 250mm di diametro può essere proficuamente usato solo quando l'atmosfera ha poca turbolenza ed è calma; può non essere del tutto trasparente, anche se sarebbe ovviamente preferibile: un'immagine agitata, quindi con un seening cattivo, non permette di sfruttare il potere risolutivo in quanto i dettagli più fini verrebbero nascosti dall'agitazione dell'atmosfera. Non si tratta di una regola ferrea ed esistono delle tecniche specifiche, specie nelle riprese planetarie, che tendono a minimizzare questi effetti deleteri, tuttavia il seening è un parametro fondamentale da tenere sempre presente: potrebbero esserci dei casi dove anche un telescopio da 250mm non possa arrivare ad un potere risolutivo inferiore ai 2" (oltre cinque volte peggiore del valore teorico) ma, per il momento, consideriamo come applicabile il potere risolutivo reale del telescopio, potremmo poi sostituire al valore teorico quello che potremmo dedurre dal seening.

Ho affermato che il potere risolutivo è il parametro fondamentale anche per le riprese planetarie: in effetti esso aiuta a determinare quella che viene definita come la focale ottimale di campionamento e che dipende anche dal sistema utilizzato per registrare le immagini. Il concetto di "campionamento" è abbastanza recente nella pratica dell'astronomia dilettantistica; è stato infatti formulato con l'introduzione delle camere CCD prima e CMOS poi per le riprese astrofotografiche, in sostituzione delle emulsioni chimiche che gli astronomi hanno utilizzato per oltre un secolo. Per sua stessa natura il CCD o CMOS che sia è un dispositivo che può riprodurre i segnali che riceve in maniera limitata, essendo formato da un numero finito di pixel. In sostanza possiamo dire che stiamo utilizzando uno strumento discontinuo per cercare di registrare dei segnali continui come quelli luminosi che arrivano all'interno del nostro telescopio; questo potrebbe portare alla perdita di una certa quantità di informazioni.
Esiste però il cosiddetto "criterio di campionamento" per il quale se vengono eseguiti un numero sufficiente di rilevazioni è possibile ricostruire l'intero segnale continuo, senza perdita di informazioni. Il criterio fa parte del Teorema del Campionamento Il teorema di campionamento di Nyquist-Shannon è un teorema nel campo dell'elaborazione del segnale che funge da ponte fondamentale tra segnali a tempo continuo e segnali a tempo discreto. Stabilisce una condizione sufficiente per una frequenza di campionamento che consenta a una sequenza discreta di campioni di acquisire tutte le informazioni da un segnale a tempo continuo di larghezza di banda finita., dovuto al fisico Harry Theodor Nyquist(1889 - 1976) è stato un fisico e ingegnere elettronico svedese-americano che ha dato importanti contributi alla teoria della comunicazione. e all'ingegnere e matematico Claude Elwood Shannon(1916 - 2001) È stato un matematico, ingegnere elettrico e crittografo americano noto come il padre della teoria dell'informazione, e permette di stabilire, traslato nel campo dell'ottica e dell'astronomia, che sono necessari da 2 a 3 pixel per poter registrare il più piccolo dettaglio visibile con un telescopio.

In questo senso se il telescopio ha un potere risolutivo di 0,48" e se questo corrisponde al più piccolo dettaglio visibile sulla superficie di un pianeta, esso potrà essere rilevato solo se verrà registrato teoricamente da almeno due pixel, quindi ogni pixel dovrà riuscire a "catturarne" la metà, cioè 0,24". Ne consegue che sarà necessaria una focale, che definiamo ottimale, per cui questa condizione sarà vera; il calcolo è abbastanza semplice e viene effettuato grazie a questa semplice formula:

[2]     Fe = (d * 206265) / (Pr /2)


dove d sono le dimensioni in millimetri del pixel della camera e Pr il già visto potere risolutivo del telescopio. Fe assume il significato di "focale equivalente", ovvero quella focale a cui portare il telescopio tramite l'inserimento lungo il percorso ottico di moltiplicatori o riduttori di focale. Per il telescopio da 250mm e utilizzando una camera ZWO ASI 120MC, dotata di un sensore CMOS da 1280x960 pixel corrispondenti a 4,8x3,6 mm con pixel quadrati di 3,75 micron di lato (0,00375 mm), la Fe risulta pari a circa 3200mm: dato che la focale nativa di questo telescopio è di 1250mm, sarà necessario allungare la focale: cosa facilmente realizzabile con una lente di Barlow 3x, che la porterà a ben 3750mm.

Aumentare ulteriormente, ovvero ingrandire di più, non porterebbe alcun vantaggio significativo e, anzi, potrebbe essere addirittura controproducente, in quanto si potrebbero evidenziare in maniera molto maggiore anche le turbolenze atmosferiche, con una rapida perdita di definizione dell'immagine finale. Volendo fare un confronto, con il precedente telescopio con cui osservavo, ovvero lo Schmidt-Cassegrain da 200mm di diametro f/10, e con la stessa camera della ZWO ASI, la focale equivalente ottimale si raggiungeva ai 2600mm, quindi già con una Barlow 2x superavo abbondantemente tale valore, questo non toglie però che avevo spesso utilizzato tale soluzione, portando quindi la focale equivalente a quattro metri, anche se le condizioni del seening raramente potevano permettere di avere visioni nitide dei pianeti. In effetti quello che ottenevo era sempre un "sovracampionamento", accettabile in condizioni di seening eccellente e quando vengono utilizzate tecniche specifiche di ripresa. Anche con il nuovo telescopio da 250mm sono in condizioni di sovracampionamento ma più contenute: 53% in più con lo Schmidt-Cassegrain e solo 17% maggiori con il Newton da 250mm; tutto questo si traduce in immagini teoricamente migliori, a patto sempre di avere un seening accettabile. Ripeto ancora una volta che il teorema per il quale è sempre preferibile avere un telescopio del diametro più grande possibile è valido in senso generale, per quello già detto precedentemente; anche strumenti sostanzialmente piccoli, come per esempio dei Maksutov, simili agli Schmidt-Cassegrain ma con un "menisco" ottico al posto della lastra correttrice, da 127 o 150 mm di diametro oppure addirittura dei Newton con lo specchio principale del diametro di 114 mm posso fornire immagini più che soddisfacenti e, qualche volta, veramente eccezionali. Si tratta forse di casi forse particolari, con ottiche di grande qualità e molto ben collimate abbinate a condizioni di seening particolarmente favorevoli; si possono talvolta riscontrare diversi casi in cui si possono ammirare foto eseguite con simili strumenti molto ben fatte, che nulla hanno da invidiare a quelle realizzate con strumenti ben più grandi se non per il fatto di avere una risoluzione inferiore e quindi di mostrare inevitabilmente un minore numero di dettagli. Da parte mia preferisco sempre utilizzare il massimo dell'attrezzatura disponibile ma si tratta di una scelta personale.

Nell'immagine riprodotta in questa sezione e pubblicata in origine sul blog astroattrezzi viene rappresentata la simulazione di due stelle separate tra loro dal limite di diffrazione di cui la prima posta nel punto di incrocio di quattro pixel. In questo caso un campionamento di soli 2 pixel per FWHM è sufficiente per risolvere le stelle; in altri casi sarà invece necessario un campionamento di almeno 3,33 pixel, secondo i principi base della teoria del campionamento.

Finora non ho citato gli strumenti "classici" per l'osservazione planetaria e lunare, ovvero i telescopi a lenti chiamati anche rifrattori al contrario di quelli a specchio classificati come riflettori: in realtà essi sarebbero davvero i più indicati per i soggetti astronomici in argomento: i rifrattori danno immagini più incise e contrastate, anche per la completa assenza di ostruzioni centrali e il tubo chiuso che garantisce, similmente agli Schmidt-Cassegrain o ai Maksutov, che non si formino turbolenze interne; per contro trovare delle lenti di qualità a prezzi abbordabili è molto più difficile rispetto al reperire specchi ben lavorati e, inoltre, i costi salgono esponenzialmente con l'aumentare del diametro, molto più di quanto non accada con i riflettori.
I rifrattori di fascia medio-bassa con diametri sufficienti per ottenere immagini planetarie soddisfacenti, quindi a partire dai 100mm in su, hanno degli obiettivi costituiti da una coppia di lenti studiata per ridurre l'aberrazione cromatica e sono chiamati "acromatici" ma molto difficilmente riusciranno a correggerla in modo completo; inoltre dovranno avere delle focali abbastanza lunghe, con rapporti da f/8 in su, sia per garantire una focale sufficiente per ottenere un buon ingrandimento e una buona scala d'immagine e sia per ridurre ulteriormente i cromatismi residui. I rifrattori apocromatici, aventi obiettivi costituiti da un minimo di tre lenti e virtualmente esenti da aberrazioni cromatiche, sono molto più costosi e non vengono prodotti con focali lunghe in quanto normalmente destinati ad applicazioni di astrofotografia a grande campo di oggetti deboli ed estesi.

Il lettore potrà quindi utilizzare il proprio telescopio tenendo presente gli elementi di teoria che ho introdotto e, se necessario, completare la propria attrezzatura con tutti quegli accessori che gli permetteranno di ottenere i massimi risultati possibili. Una lente di Barlow, per esempio, sarà un accessorio quasi indispensabile nelle riprese planetarie, meglio se di tipo apocromatico a 2x oppure anche a 3x; eventualmente si potrà anche valutare l'acquisto di un oculare di qualità, per effettuare delle riprese con la modalità della proiezione dell'oculare La proiezione dell'oculare è un ottimo modo per scattare riprese dettagliate della Luna e dei pianeti. Gli oggetti fotografati con questa tecnica sono considerevolmente più grandi e mostrano più dettagli rispetto a quelli ripresi con scatti a fuoco primario. Le tecniche di messa a fuoco primaria sostituiscono l'obiettivo della fotocamera con un telescopio senza nessuna diagonale e nessun oculare, ma la proiezione dell'oculare aggiunge un oculare nel percorso ottico, aumentando considerevolmente la lunghezza focale e l'ingrandimento.. In questo caso però saranno necessari altri accessori, come dei tubi di raccordo ed attacchi particolari; inoltre questa tecnica, pur permettendo di incrementare in maniera significativa la lunghezza focale equivalente dell'intero sistema ottico, raramente fornisce risultati soddisfacenti, anche per via delle inevitabili aberrazioni aggiuntive introdotte, superiori a quelle causate da una lente di Barlow di buona fattura.

Indipendentemente dal tipo di combinazione ottica utilizzata è bene ricordare che è necessaria una buona collimazione delle ottiche stesse: esistono in rete molte guide pratiche su come collimare i diversi tipi di telescopi e non si tratta di operazioni molto complesse, sono però assolutamente necessarie per evitare che i dettagli planetari risultino come "impastati", cioè con poca definizione. La verifica e controllo della collimazione è fondamentale per i telescopi a specchio, più soggetti a perderla quando sono sottoposti a trasporto, mentre i telescopi a lenti tendono a perdere la collimazione molto più di rado, specie per piccoli diametri.

C'è un componente dei nostri telescopi che viene spesso poco considerato e che meriterebbe una maggiore attenzione e cura: la montatura. Con il termine "montatura" si intende tutta quella parte meccanica che sorregge il tubo ottico e che permette il puntamento e l'inseguimento degli astri nel loro movimento diurno apparente. Si dividono sostanzialmente in due grandi categorie: quelle equatoriali che permettono l'allineamento al polo celeste e che quindi consentono di compensare la rotazione terrestre mantenendo gli oggetti celesti nel campo visivo, e quelle altazimutali che si allineano con la posizione locale dell'osservatore, rispetto al proprio orizzonte ed al suo zenit. Nelle montature altazimutali più economiche per mantenere un oggetto all'interno del campo visivo del telescopio è necessario muovere sia l'asse orizzontale che quello verticale, invece in quelle equatoriali anche economiche è sufficiente un solo movimento, a patto che l'asse centrale della montatura sia stato allineato con l'asse di rotazione terrestre.

Ignorerò volutamente in questa sede tutte le montature altazimutali ed equatoriali super economiche: non per snobismo ma semplicemente perché questi semplici apparecchi non hanno né le caratteristiche né la robustezza necessaria per affrontare una sessione di astrofotografia planetaria che si possa definire seriamente in questo modo. Per ottenere delle immagini che possano essere proficuamente elaborate è necessario che il telescopio possa mantenere inquadrato il soggetto celeste per almeno un minuto in maniera continuativa ad alti ingrandimenti, ovvero con focali equivalenti molto lunghe; un qualunque astro impiega una manciata di secondi per uscire dal campo della camera di ripresa cosí come dal campo inquadrato da un oculare, come si può facilmente verificare. Inoltre in tutto il periodo in cui si mantiene il soggetto inquadrato è necessario che ci siano meno vibrazioni possibili in tutta la struttura, in modo da mantenere stabile l'oggetto, senza sussulti.
Le condizioni appena poste escludono immediatamente le montature altazimutali semplici ma lasciano aperta la porta per quelle più evolute, dotate di motori e supportate dall'elettronica. Queste montature altazimutali si trovano normalmente accoppiate a telescopi Schmidt-Cassegrain come i Celestron e, su diametri dei telescopi abbastanza grandi, possono essere anche utili in termini di robustezza, compattezza ed economicità. Il problema dell'inseguimento degli astri viene risolto da un computer che comanda una coppia di motori con movimenti sia sull'asse orizzontale che su quello verticale, simulando l'inseguimento di una montatura equatoriale. Questo sistema risulta sufficiente per le riprese planetarie, a patto di aver dato un corretto posizionamento iniziale alla montatura, e consente di mantenere inquadrato il pianeta anche con lunghe focali, quando il campo visivo diminuisce in maniera sensibile.

In alto i due tipi di montature sotto esame: a sinistra una tipica altazimutale e a destra una equatoriale. Entrambe sono di un livello medio-alto e montano la stessa tipologia di telescopio: Schmidt-Cassegrain della Celestron. La motorizzazione degli assi, su entrambe le tipologie, permette di mantenere inquadrato un soggetto astronomico, compensando la rotazione terrestre; è più semplice per la montatura equatoriale a destra, mentre a quella altazimutale viene chiesto un lavoro aggiuntivo su entrambi gli assi.

Conoscere le dimensioni del campo inquadrato dal proprio telescopio è quindi molto importante e può essere calcolato dalla seguente semplice formula:

[3]     Ci = L * 206265 / F


dove Ci rappresenta il campo inquadrato in secondi d'arco, L è la lunghezza del lato del sensore utilizzato in millimetri e F la focale del telescopio sempre in millimetri. Ritornando all'esempio del telescopio Newton con lente di Barlow 3x (quindi il valore di F sarà uguale a 3.750mm anziché i suoi originari 1.250mm) e camera CMOS ASI 120MC si trova che il campo inquadrato risulta essere pari a 264"x198" visto che le dimensioni del sensore CMOS della camera 120MC sono di 4,8x3,6 millimetri. Considerando che un pianeta come Giove mostra, nel suo massimo avvicinamento alla Terra, un diametro apparente di circa 48", si può capire come il campo visivo risulti estremamente ridotto e sia necessario un buon sistema di inseguimento, oltre a una stabilità che può essere garantita solo da una montatura robusta. Quelle equatoriali sono ovviamente avvantaggiate, meglio ancora quelle che consentono un allineamento al polo celeste di una certa precisione, dotate quindi di cannocchiale polare interno; per le altre, fermo restando gli irrinunciabili requisiti di robustezza e stabilità, si potrà procedere usando sistemi alternativi di allineamento, come quello di Bigourdan che viene utilizzato anche quando il polo celeste, ovvero la stella Polare per gli osservatori dell'emisfero nord, non è direttamente osservabile.

Abbiamo quindi finora esaminato due dei componenti fondamentali della nostra strumentazione astronomica per le riprese fotografiche planetarie: il tubo ottico e la montatura; insieme formano quello che viene normalmente definito come "telescopio" nel suo complesso. Non ho citato il treppiede che deve sostenere il tutto in quanto lo possiamo dare per scontato, di qualità sicuramente pari alla montatura: per cui se si tratterà di una montatura robusta, il treppiede sarà molto probabilmente adeguato; in alcuni casi troviamo una colonna al posto del treppiede ma la sostanza non cambia.
Il terzo componente fondamentale per le nostre foto planetarie è, ovviamente, il sistema di ripresa: ormai vengono universalmente usate camere CMOS non raffreddate e, in questo campo, negli ultimi anni domina quasi incontrastata la ZWO, con le sue camere ASI. I motivi di questo successo sono chiari: facilità d'uso, piccole dimensioni, flessibilità d'impiego e costi contenuti; fino a qualche anno fa venivano usate anche delle webcam commerciali adattate, in cui veniva asportato l'obiettivo e sostituito da un "naso" filettato dello stesso diametro degli oculari e che permetteva, quindi, di montarle sul tubo portaoculari di un telescopio. La qualità era abbastanza mediocre e le immagini risultanti potevano, nel migliore dei casi, essere definite di modesta qualità; le nuove camere planetarie hanno cambiato completamente la prospettiva, con sensori CMOS dotati di chip sempre più grandi, con pixel sempre più piccoli e rumore di fondo sempre più contenuto. I risultati non hanno tardato a farsi apprezzare: negli anni ottanta del secolo scorso la fotografia planetaria era praticamente relegata a quei pochi fortunati osservatori che potevano godere di seening eccellente e che disponevano di attrezzature molto costose; adesso quasi chiunque può cimentarsi nelle riprese di pianeti e della Luna ottenendo in breve tempo risultati eccellenti, che solo dieci anni fa sembravano assolutamente impensabili. Se non si è ancora in possesso di una di queste camere CMOS ci si può tranquillamente orientare sulle già citate ZWO ASI, anche se, recentemente, anche altre aziende sono entrate in questo segmento di mercato proponendo delle validissime alternative, di alta qualità ed estremamente performanti.
Nell'immagine a destra è riprodotta una tipica camera planetaria della ZWO, in questo caso specifico la ASI 224 MC a colori. Tutte le camere non raffreddate della ZWO hanno un design molto simile e le differenze devono essere rintracciate soprattutto all'interno, con sensori di diverse dimensioni, pixel di diversa grandezza e altre differenze su caratteristiche ancora più particolari. Anche i costi variano notevolmente, da poco circa 300 Euro per quelle di fascia medio-bassa, fino ad arrivare a 800 o 900 Euro per quelle più sofisticate; le camere raffreddate, destinate alle riprese deep sky hanno invece costi nettamente superiori.
Anche la risposta spettrale, ovvero l'efficenza quantica alle varie lunghezze d'onda, può variare da un modello all'altro, anche se sostanzialmente sono abbastanza simili le una alle altre; in basso viene rappresentata la risposta in termini relativi da 0 a 1 in funzione della lunghezza d'onda per tutte e tre le componenti del sistema RGB. Come ribadito in seguito, la qualità finale delle immagini ricavate da camere a colori è senz'altro inferiore a quella ottenibile con camere B/N.

Alternative alle ZWO troviamo alcune, non molte forse, alternative e tra queste una piuttosto valida e proveniente dall'estremo oriente; con le cinesi Player One che, oltre a proporre una famiglia di camere specificatamente pensate per le riprese planetarie, abbinano delle nuove tecnologie che migliorano e velocizzano la comunicazione con il computer per lo scarico delle immagini e diminuisono ulteriormente il rumore di fondo dell'elettronica senza ricorrere ai sistemi di raffreddamento. Ogni azienda ha nel suo catalogo camere a colori e in bianco e nero: queste ultime sono quanto di più vicino ci sia ad una attrezzatura professionale, con una qualità dell'immagine molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle camere a colori e pienamente utilizzabili anche a livello scientifico. Le camere in B/N hanno però il difetto di avere necessità di attrezzature accessorie, come una serie di filtri RGB e, inevitabilmente, anche di una ruota porta filtri per semplificare il processo di ripresa per ottenere immagini a colori. In pratica per ottenere una singola immagine a colori di un pianeta è necessario effettuare tre riprese distinte con i tre diversi filtri e poi assemblare il tutto nell'immagine finale.
Per semplificare in questa sede considererò solo le camera a colori che permettono riprese ed elaborazioni sostanzialmente più semplici e tutto sommato più economiche, quindi per chi sta iniziando ora l'avventura delle riprese planetarie è senza dubbio consigliabile partire con una siffatta camera, poi il tempo dirà se sarà il caso di passare a tecniche più complesse ed avanzate. Come nota aggiuntiva credo sia d'obbligo aggiungere che queste camere vengono anche usate come autoguida per realizzare foto a lunga esposizione di oggetti deboli con altre camere CCD o CMOS pensate specificatamente per le riprese deep sky, come nebulose e galassie: una camera planetaria ha quindi sempre e comunque un doppio utilizzo e credo rappresenti un ottimo investimento.











L'osservazione



Abbiamo quindi esaminato i nostri componenti base, quelli che ci permetteranno di realizzare le nostre foto planetarie, adesso però dobbiamo affrontare la parte più squisitamente pratica con i primi esperimenti sul campo e con la scelta delle prime applicazioni software che ci permetteranno di acquisire ed elaborare le nostre immagini dei pianeti. Quello che si dovrà realizzare sarà di registrare dei brevi filmati in formato AVI non compresso oppure in SER, del nostro soggetto planetario in modo da poter accumulare in un singolo file un numero sufficiente di frame che ci consentano in seguito di elaborare un'immagine finale. Per realizzare questo bisogna usare degli appositi software realizzati proprio per la cattura di video ed è anche necessario impostare alcuni parametri per riuscire a ottenere avere un numero di frame maggiore possibile in un arco temporale più breve possibile.
Una condizione assolutamente da soddisfare è quella di poter mantenere il soggetto da riprendere costantemente all'interno del campo visivo del telescopio per tutto il tempo della ripresa: se stiamo usando una montatura equatoriale ed essa non è ben allineata all'asse di rotazione terrestre, il risultato sarà che il pianeta inquadrato scivolerà ben presto fuori dal campo di ripresa della camera anche se è stato attivato il motore per l'inseguimento automatico; in questo caso sarà necessario guidare il telescopio e correggere le imperfezioni di puntamento con la pulsantiera del controllo a distanza. Se invece la montatura è altazimutale la cosa sarà sicuramente più complessa; se si tratta di una montatura motorizzata ed equipaggiata con un computer per il puntamento allora nessun problema: ci penserà il computer ad eseguire tutte le correzioni del caso, a patto che si sia eseguito un buon stazionamento, altrimenti bisognerà agire a mano e, lo affermo in modo assolutamente sicuro anche per esperienza diretta, con moltissima difficoltà. Si dovrà agire sui due assi della montatura, quello verticale e quello orizzontale, per compensare un movimento che avviene secondo un angolo che dipende dalla nostra latitudine, quindi sicuramente molto diverso da quello degli assi del telescopio. In sostanza dobbiamo essere ragionevolmente sicuri che il nostro soggetto rimanga visibile per un tempo sufficiente in modo che ci permetta di riprendere un file video contenente almeno duemila frame. Anche una montatura traballante e sottodimensionata rispetto al peso del tubo ottico può portare ad aggiungere altre difficoltà: se il pianeta oscilla di continuo, anche se si mantiene all'interno del campo visivo, il software di elaborazione video potrebbe incontrare molte difficoltà nell'analisi e riduzione dei dati. I duemila frames citati sono un valore indicativo, in realtà potrebbero bastare anche un numero di frame inferiore, come ad esempio 1.500: tutto però dipende dalla qualità delle immagini e, quindi, dal seening presente durante la sessione osservativa; per sicurezza consiglio come minimo i duemila frame. Avendo come riferimento questo valore, possiamo iniziare ad impostare i parametri del nostro software di ripresa in modo da poter raggiungere tale limite minimo in un tempo che non sia eccessivo; per riprendere video dei pianeti e della Luna la mia preferenza cade sull'applicazione SharpCap, nella versione 3.2 prima e, più recentemente, nella migliore 4.0 disponibile in rete gratuitamente.

Esistono altri software che mettono a disposizione, più o meno, le medesime funzionalità: la scelta dell'applicazione da usare dipende molto da fattori, spesso squisitamente personali e che poco hanno a che vedere con le effettive capacità del software stesso; a mio avviso si equivalgono più o meno tutti, quindi l'unico criterio realmente valido è quanto sia gradito a chi lo utilizza. Io, personalmente, mi trovo bene con SharpCap e la mia preferenza ricade su di esso, imposterò quindi la mia trattazione utilizzando negli esempi SharpCap, altre persone possono però senz'altro optare per soluzioni diverse; le operazioni da eseguire per raggiungere i nostri obiettivi sono praticamente le stesse per qualunque programma, cambiano solo un poco la disposizione dei comandi e le scale su cui sono tarate.
Su SharpCap si sceglie la camera da usare (menu "Cameras") e quindi il programma accede alla camera CMOS un come se si trattase di una webcam vecchio tipo, in questo caso esempio si tratta di una ZWO ASI 120MC; in precedenza era già stato puntato il pianeta da riprendere, inquadrandolo a vista con un oculare che mi forniva un basso ingrandimento e quindi un campo visivo abbastanza grande, quindi avevo posto il pianeta al centro del campo dell'oculare e sostituito l'oculare con la camera; può essere utile fare un passaggio intermedio, utilizzando un oculare che dia un ingrandimento maggiore e riposizionando il pianeta nuovamente al centro del campo visivo. Perché questi passaggi aggiuntivi? Perché il campo inquadrato dalla camera CMOS sarà sempre e comunque più piccolo del campo inquadrato da un oculare a basso ingrandimento e perché è molto più semplice inquadrare un soggetto utilizzando l'oculare che non utilizzando direttamente la camera: chiaramente la procedura completa di puntamento prevede a monte l'utilizzo del cannocchiale cercatore ma si potrà verificare che l'accoppiata cercatore/oculare è molto più semplice da utilizzare di quella cercatore/camera, visto anche che l'immagine restituita dalla camera si forma sul computer. Una volta che il soggetto è inquadrato dalla camera, sul monitor del computer potrà comunque non essere visibile, nessun timore: innanzi tutto alziamo molto l'esposizione ed il gain (guadagno) in modo da far risaltare immediatamente la presenza di oggetti celesti nel campo, quindi andiamo a sistemare la messa a fuoco. Qui ci vorrà un pochino di pazienza, agendo con delicatezza sulla manopola della cremagliera in modo da non provocare eccessivi vibrazioni al telescopio che potrebbero far perdere il puntamento. Ad un certo punto l'oggetto diventerà visibile e la sua immagine, fortemente sovraesposta, verrà mostrata sullo schermo del computer.
In particolare, qui si osserva il pianeta Giove al fuoco diretto del mio telescopio Newton da 250mm di diametro e 1250mm di lunghezza focale con due delle sue quattro lune principali, i cosiddetti "satelliti Galileiani", appena percettibili uno sulla destra e un altro più vicino al disco del pianeta, sulla sinistra. "Fuoco diretto" significa che la camera planetaria è stata sistemata al posto dell'oculare, senza alcun elemento ottico aggiuntivo; questa situazione viene anche detta "Primo Fuoco" del telescopio e il campo inquadrato sarà il massimo possibile mentre l'ingrandimento sarà, invece, il minimo.

Nell'immagine a destra si propone una schermata di SharpCap con i settaggi impostati per una mia tipica ripresa planetaria: si tratta ovviamente di valori adatti per il mio telescopio e la mia camera, utilizzando altri strumenti bisognerà forse utilizzare parametri diversi. La prima cosa che si sicuramente potrà essere modificata è risoluzione complessiva della camera: se la montatura del telescopio insegue bene il movimento della volta celeste appare inutile lasciare il massimo campo possibile, nel mio caso pari a 1280x960 pixel, che inquadra una gran parte di inutile fondo cielo, abbassa il frame rate e aumenta le dimensioni finali del file. Caso diverso se invece si sta riprendendo la Luna ad alto ingrandimento, dove dovrà essere sfruttata l'intera superficie sensibile del sensore.
A differenza dell'immagine precedente, dove Giove era ripreso a basso ingrandimento e pesantemente sovraesposto, qui il disco del pianeta appare molto più con diversi dettagli già direttamente visibile nell'immagine grezza. Questa trasformazione nelle dimensioni apparenti del pianeta sono dovute all'introduzione, nel treno ottico che porta l'immagine dal telescopio alla camera, di una lente di Barlow 3x. Qui trova applicazione, nella pratica, il significato della lunghezza focale equivalente ottimale per un corretto campionamento, definita nella formula [2]: occorre ingrandire quel che basta per fare sì che i dettagli più fini dell'immagine vengano portati alla giusta dimensione per poter essere apprezzati, senza esagerare ma senza nemmeno lesinare troppo. Nel caso specifico quella lunghezza focale ottimale sarebbe, come già specificato precedentemente, di circa tre metri e 20 centimetri, la lente di Barlow 3x utilizzata ha permesso di raggiungere una focale di tre metri e settantacinque centimetri, un poco più alta del valore di riferimento ma ancora perfettamente compatibile.

Si possono anche calcolare le dimensioni in pixel del disco di Giove così come appare sul sensore grazie alla formula:

[4]     Dp = (F * Da) / (d * 206265)


dove Dp sono le dimensioni in pixel dell'oggetto sul sensore, F la focale del telescopio, in questo caso quella equivalente ovvero determinata dalla presenza della lente di Barlow 3x quindi in questo caso 3.750 millimetri, Da le dimensioni angolari in secondi d'arco del pianeta, circa 48" per Giove al momento dell'osservazione e d le dimensioni in millimetri del pixel del sensore che per la ASI 120MC sono di 0,00375 (3,75 micron). Nell'esempio, le dimensioni di Giove sul sensore sono quindi pari a circa 232 pixels. Confrontando le due precedenti immagini si potrà notare che è stata diminuita l'esposizione, da 60 a 35 millisecondi, e modificato anche il gain (guadagno): in realtà sarà sempre necessario lavorare congiuntamente su entrambi questi parametri, cercando di ridurre il più possibile il gain per evitare di introdurre un rumore di fondo eccessivo e modificare, di conseguenza, l'esposizione per avere un'immagine ben illuminata ma che abbia un frame rate (numero di frame per secondo) sufficiente a raccogliere almeno un paio di migliaio di frame nell'arco di uno o due minuti al massimo. Un'esposizione più rapida consente di avere dei frame rate più alti, però l'immagine perde notevolmente di luminosità per cui bisognerebbe alzare il guadagno: insomma è necessario trovare un equilibrio tra tutti questi parametri, un equilibrio che dipende dal telescopio che viene utilizzato e dalle condizioni osservative, per cui non si può fornire a priori dei valori esatti; ognuno deve trovare i suoi e non sono fissi ma possono variare anche durante l'arco della stessa serata. Può risultare anche utile manipolare la luminosità (Brightness) alzando un poco il valore e manipolare il valore del Gamma: personalmente io cerco di diminuirlo sempre il più possibile, almeno utilizzando la ASI 120MC, in quanto ho potuto verificare che si ottengono immagini finali molto più contrastate, però è altamente consigliabile fare degli esperimenti per verificare il valore che più si adatta alle proprie esigenze.
Ricordo ancora una volta che i parametri qui indicati con le scale mostrate sono validi per il programma SharpCap, altri software potranno mostrare voci diverse con scale differenti.
Come si vede nell'immagine pubblicata, la risoluzione scelta è quella massima possibile con la ASI 120MC; questo comporta, come già accennato, una diminuzione del frame rate, un aumento delle dimesioni del file video finale e complica un poco anche le successive elaborazioni. A meno che non sia proprio indispensabile, conviene sempre limitare la risoluzione, scelgliendo quindi una ROI (Region Of Interest) più piccola.

L'immagine che viene visualizzata sul monitor del computer appare, a dire il vero, piuttosto bruttina: un disco che si deforma continuamente, con dettagli che si formano e svanisco nell'arco di frazioni di secondo ed una luminosità che varia in modo assolutamente irregolare: sembra che non si possa sperare in una immagine decente del pianeta, occorre però avere fede e perseveranza. In effetti l'immagine che vediamo sul monitor è in modalità "live" e risente di tutti i disturbi atmosferici del caso; qui infatti vediamo concretamente cosa si intende per seeingIn astronomia, il seeing rappresenta il degrado dell'immagine di un oggetto astronomico a causa della turbolenza nell'atmosfera terrestre; esso può manifestarsi come sfocatura, scintillio o distorsione variabile.. Un'immagine che rimane stabile per più di poche frazioni di secondo ci farà già capire di trovarci in una serata con un buon seeing, una che "ribolle" continuamente darà una chiara indicazione di seeing non buono. È per questo che si cerca di riprendere dei filmati con alti valori di frame rate: si cerca di "congelare" alcune immagini ben definite in mezzo ad un continuo di immagini fortemente disturbate e questa tecnica viene chiamata "lucky imaging". Tra i due o tremila frame catturati è altamente probabile che una certa percentuale siano nitide e possano sfruttare al massimo il potere risolutivo del telescopio, il valore di questa percentuale dipende essenzialmente dal seeing. Si può quindi iniziare la ripresa del file video, in formato AVI oppure SER: il tipo di file di output lo si decide nella stessa finestra di destra, dove sono presenti tutti i parametri di SharpCap, in alto (Output Format); personalmente utilizzo sempre il formato AVI non compresso. Il pulsante "Start Capture", immediatamente al di sotto della barra del menu di SharpCap, apre invece una finestra di dialogo con cui si possono impostare i valori da assegnare alla ripresa del video: "Single Frame" per uno snapshot diretto, "Unlimited", "Number of Frames" se si desidera impostare un limite massimo di frame da catturare, oppure "Time Limit" per dare il tempo di durata massimo del file video. La mia opzione preferita è sempre l'ultima ma si tratta di una cosa assolutamente soggettiva, si può tranquillamente anche scegliere il numero massimo di frame, impostando magari il valore a 2.000 o 3.000; scegliendo il limite temporale, che può variare da uno fino a tre minuti, e con i parametri così come impostati nell'immagine a fianco, si riesce quasi sempre ad avere un minimo di 2.200 frame nel file AVI. Una volta completata l'acquisizione, segnalata da SharpCap prima come un progresso in basso a destra della schermata e poi con un avviso in alto, il file video verrà salvato in una sottocartella del proprio hard disk, secondo le impostazioni stabilite attraverso il menu "File", "SharpCap Settings", "Filenames".
Nel caso di pianeti come Giove e, anche se in misura molto minore, Saturno, il limite massimo di durata di una singola ripresa video non dovrebbe eccedere i tre minuti: questo perché la rapida rotazione di questi pianeti intorno al proprio asse, circa 10 ore alle latitudini equatoriali, fa scorrere rapidamente le formazioni atmosferiche visibili. In tre minuti ogni particolare dell'atmosfera si sposta quindi di quasi due gradi, uno spostamento già avvertibili con telescopi di medie dimensioni; limitare la durata delle riprese entro i tre minuti riduce la probabilità che si generino dei dannosi "mossi".

Terminata la fase dell'acquisizione del primo video si può scegliere se iniziare una nuova registrazione o fa passare qualche minuto: questo dipende sia dal tipo di pianeta inquadrato sia dal tipo di elaborazione che si vorrà affrontare in seguito. Come detto un pianeta come Giove ha un periodo di rotazione intorno al proprio asse piuttosto rapido, per cui aspettando dai 20 ai 30 minuti si potranno già cogliere nuove formazioni atmosferiche mentre altre saranno scomparse, "tramontate" oltre il bordo occidentale del pianeta. È altresì possibile riprendere video di Giove a ritmo serrato entro un arco temporale massimo di quindici minuti; grazie poi a particolari software è possibile "derotare" ogni filmato, ottenendo delle immagini singole che vengono poi sommate insieme creando una unica, molto più definita.
L'elaborazione di più file video e la loro riduzione per generare un'immagine derotata è un poco più complessa e la rimando a una futura trattazione; in questa sede si esamina il caso più semplice, ovvero singole riprese, distanziate temporalmente di 20 o 30 minuti circa. Come visibile nella GIF animata qui pubblicata, le singole immagini ricavate dai diversi video possono essere facilmente assemblate insieme per podurre una piccola animazione, in cui risultano ben evidenti non solo la rotazione del pianeta attraverso lo scorrere delle sue formazioni atmosferiche, ma anche la rivoluzione dei satelliti galileani intorno al gigante gassoso. La tecnica può essere usata anche per Saturno, sebbene la povertà di fenomeni atmosferici evidenti e la più bassa luminosità delle sue lune (escludendo ovviamente Titano), la renda abbastanza inutile. Marte, per contro, ha un periodo di rotazione intorno al proprio asse paragonabile a quello del nostro pianeta, cioé poco più di 24 ore, per cui cambiano un poco sia la durata di ogni video, sia l'intervallo fra i vari video se si vuole mettere in evidenza la sua rotazione.



Qui a fianco il pianeta Marte ripreso nella sua precedente opposizione del 2020; malgrado lo strumento utilizzato fosse relativamente piccolo (uno Schmidt-Cassegrain da 200 millimetri di diametro), è riuscito a registrare una discreta quantità di dettagli della superficie marziana.











L'Elaborazione



Siamo finalmente riusciti a ottenere i nostri file video, adesso è il momento di elaborarli e di ricavare da essi le immagini finali. Andando a visionare questi file potrà sembrare molto difficile che si possa ricavare qualcosa di utile da essi: come avevamo già visto in diretta durante la fase di acquisizione dei video, l'immagine del pianeta appare tremolare e "bollire", contorcendosi sotto gli effetti della turbolenza atmosferica; però i software che andremo ora ad utilizzare possono fare quello che sembra un vero e proprio miracolo, anche se si tratta solo dell'applicazione pratica di diversi algoritmi di calcoli, anche se abbastanza complessi. Come spesso accade esistono in circolazione diversi programmi (ora si tende a chiamarli "applicazioni") che possono essere utilizzati e la scelta di uno rispetto ad un altro dipende ancora una volta dai gusti personali o da quanto ogni applicazione garantisca un approccio più o meno semplificato; la mia scelta cade normalmente su due programmi in particolare: Autostakkert! e Registax.
Il primo, giunto alla sua versione 3.1.4, è un'applicazione che si occupa principalmente di fare quello che viene chiamato "stacking" dei frame dei nostri file video: in sostanza mette in pila i vari frame e li somma in modo da eliminare il più possibile i rumori di fondo e i disturbi, cercando di mettere in evidenza solo le reali caratteristiche del pianeta. Questa tecnica trae le sue origini dalla fotografia classica con pellicola, quando si "mettevano a registro" più emulsioni fotografiche dello stesso soggetto in fase di stampa, con l'ingranditore in camera oscura. Era un'operazione complessa che richiedeva una grande precisione e perizia e non tutti erano in grado di eseguirla correttamente. Mutuato da questa antica tecnica, la messa a registro si usa oggi a piene mani in fotografia astronomica, sia nelle foto a lunga esposizione sia in quelle planetarie. Ovviamente la pellicola è stata sostituita da una serie di pixel in una matrice bidimensionale ma il concetto rimane uguale: se sommo diverse immagini dello stesso soggetto, i disturbi tenderanno ad eliminarsi l'uno con l'altro, perché i pixel interessati non saranno mai gli stessi per effetto della casualità; cose quindi come il rumore di fondo elettronico e le distorsioni dovute alla turbolenza atmosferica saranno minimizzate, mentre risulteranno rafforzate tutte quelle caratteristiche reali e fisse dell'immagine, ovvero in questo caso i dettagli delle superfici planetarie. Esistono quindi degli algoritmi che effettuato queste elaborazioni, cercando di non introdurre particolari spuri inesistenti nelle immagini originali; l'uomo viene quindi sollevato dall'ingrato compito di esaminare ogni singolo fotogramma e il software si occupa di tutto.

Una volta avviato Autostakkert aprono due finestre appaiate: sulla sinistra si trovano i comandi principali e i settaggi per i parametri, quella di destra sarà destinata alla visualizzazione dell'anteprima dell'immagine, con alcune altre importanti impostazioni. Caricato il file video con il pulsante Open verrà visualizzato il primo frame del file e si noterà al centro del disco del pianeta una piccola croce di puntamento: il software ha già individuato i contorni planetari e trovato il centro del disco; è anche riportata in alto la risoluzione del video, nell'esempio riportato si tratta di un filmato ripreso alla massima risoluzione possibile della ASI 120M ovvero 1024x768. Un cursore, posizionato su una barra e indicante il primo frame, permette di spostarsi attraverso i vari fotogrammi. Nella finestra di sinistra vengono visualizzati, in basso a sinistra, il numero di frame totali di cui è composto il video, in questo caso pari a 2.750.

A questo punto Autostakkert dovrà innanzi tutto analizzare ogni singolo frame e riordinarli tutti secondo alcuni principi di qualità, stabiliti in base a particolari algoritmi di calcolo; in questo modo si potranno riconoscere i frame migliori, in termini di stabilità e definizione, e scegliere di utilizzare solo quelli o di estendere l'elaborazione anche a frame più scadenti. L'analisi viene avviata con il pulsante Analyse e può richiedere anche qualche minuto, a seconda delle dimensioni del file e della potenza elaborativa del computer. Da notare alcuni parametri fondamentali di questa prima fase elaborativa: nella finestra di sinistra troviamo selezionata l'opzione Planet (COG) in quanto stiamo esaminando una ripresa di un pianeta (in questo caso Giove), nel caso della Luna si dovrà selezionare l'opzione Surface; spuntare la voce Dynamic Background se non già attivo e Laplace nella sezione in basso intesta con la voce Quality Estimator. Ancora, selezionare Local (AP) per fare in modo che il software sia impostato per lavorare su Alignment Point come vedremo tra poco; lasciare attiva l'opzione Auto size per quello che riguarda il Reference Frame.

Al termine dell'analisi del file nella finestra di sinistra viene visualizzato il risultato sotto forma di un segno di spunta verde alla voce Buffering and Analysis con il tempo impiegato per l'analisi stessa, in secondi; subito sotto un grafico che sintetizza il grado di qualità dei frame. La curva in verde rappresenta i frame riordinati secondo questi criteri di qualità, si può quindi decidere quanti frame prendere in considerazione per l'elaborazione finale, sia in termini percentuali oppure in valori assoluti, indicando all'applicazione il numero esatto di fotogrammi. Cliccando sul grafico, più o meno all'incrocio della curva verde con l'asse orizzontale che rappresenta il 50%, si può identificare il numero di frame con una qualità migliore del cinquanta per cento. In questo caso l'analisi identifica i primi 1.250 frame su 2.750, cioè circa il 45% del totale del video, come aventi una qualità maggiore del 50%. Si può utilizzare sia il valore percentuale che quello assoluto, è assolutamente indifferente, Il valore scelto va inserito nel primo box rosa in alto a destra, sempre nella finestra di sinistra dell'applicazione: prima riga nel caso di valore assoluto, seconda riga per quello percentuale. In questa sezione si sceglie anche il tipo di file che verrà prodotto in output: il tipo TIF è quello che assicura una maggiore qualità, permettendo di conservare tutti i dettagli presenti nell'immagine elaborata, come del resto avviene scegliendo il formato PNG; il FIT invece, pur garantendo un'alta qualità, è un formato tipico delle applicazioni astronomiche, che non viene però letto dai normali software di fotoritocco commerciali. Dato che dovremo senz'altro effettuare un passaggio che potremmo definire "cosmetico" alla nostra immagine finale, è consigliabile orientarsi sui formati TIF o PNG. Sotto ancora si trova una sezione che riguarda alcune impostazioni generali che, almeno inizialmente, consiglio di lasciare come indicato; potrete poi sperimentare con comodo le diverse combinazioni: con i valori suggeriti si ottengono già dei buoni risultati.

Torniamo ora sulla finestra di destra: qui troviamo in alto il cursore dei frames che possiamo utilizzare per identificare con precisione il frame limite fino a cui elaborare e, in basso, il riquadro dedicato agli Alignment Points (APs).
Gli APs sono molto importanti e se non vengono impostati non si può continuare con l'elaborazione: essi definiscono i punti di allineamento su cui si baserà l'algoritmo per l'allineamento dei frame e vengono impostati in base alla densità su cui si desidera lavorare. Un alto numero di APs garantisce probabilmente un migliore allineamento di un maggior numero di fotogrammi, tuttavia aumenta anche esponenzialmente il tempo di elaborazione; oltre un certo limite non c'è una reale convenienza a scegliere una densità maggiore di APs. Dipende ovviamente anche dal tipo di immagine: nel caso di una superficie che si estende sull'intera risoluzione video, come ad esempio in una immagine ad alta risoluzione della Luna, converrà senz'altro una densità di APs minore, in quanto si troveranno senz'altro un elevato numero di punti; viceversa in un'immagine planetaria dove il disco planetario occupa solo una piccola porzione dell'intero fotogramma, si potrà senz'altro optare per una densit` maggiore. Nell'esempio riportato il disco di Giove non riempie certamente l'intero frame, è però già abbastanza rilevante, per questo ho optato per una soluzione intermedia: nel box dedicato alla selezione automatica degli APs si sceglie una delle dimensioni prestabilite delle aree coperte dagli APs, in questo caso 48, e si clicca sul pulsante "Place AP grid" avendo cura di togliere la spunta all'opzione "Close to Edge" per evitare che qualche APs si possa venire a trovare in prossimità del bordo del pianeta e che possa quindi finire al di fuori dell'immagine planetaria nell'elaborazione seguente. L'algoritmo cercherà di coprire l'intera superficie del pianeta utilizzando le dimensioni impostate per la griglia AP; in questo caso ha creato una serie di griglie e identificato 78 punti utili di riferimento, che sono un numero più che sufficiente per affrontare l'elaborazione: ne sarebbe bastati in realtà anche di meno. Tengo a ribadire il concetto che il numero di APs viene determinato in base alle dimensioni della griglia, mentre l'AP viene identificato in base alle caratteristiche fisse visibili nella maggior parte dei fotogrammi: in pratica una griglia più grande, ovvero una minore densità, permetterà di selezionare solo un sottoinsieme del numero massimo di APs potenzialmente presenti. In effetti il concetto di "punto di riferimento" alla base dei punti di allineamento è che siano caratteristiche reali della superficie planetaria, quindi presenti sulla maggior parte dei frame: la selezione tramite le dimensioni della griglia permetterà di identificarne solo alcuni, mentre altri verranno ignorati in base ad un calcolo mirante ad una distribuzione uniforme sull'intero disco del pianeta. Una volta impostati gli APs e l'applicazione ha creato la griglia individuandoli, è possibile far partire la fase finale dell'elaborazione cliccando sul pulsante "3) Stack" della finestra di sinistra.

Nell'immagine pubblicata viene visualizzato il risultato finale dell'elaborazione: ogni voce al centro della schermata ha ricevuto la sua spunta verde, a testimonianza della felice conclusione di ogni procedimento; in particolare osserviamo che è stato identificato un "Reference Frame", è stato eseguito l'allineamento ("Alignment"), lo "Stacking" (letteralmente "impilamento delle immagini") e le analisi finali. L'immagine finale, che rappresenta la "somma" elaborata ed analizzata di tutti i 1.250 frame selezionati in formato TIF, è stata gi&ahgrave; automaticamente salvata in una sottocartella della stessa cartella dove è presente il file video: in particolare la cartella avrà un nome del tipo AS_F[numero] dove [numero] è il numero di frame selezionato per l'analisi, quindi nel nostro caso la sottocartella si chiamerà AS_F1250. In realtà i file TIF creati sono due, con nomi leggermente diversi, noi però dovremmo usarne solo uno per le nostre elaborazioni seguenti; se provassimo ad aprire le immagini create avremmo sicuramente una delusione: il pianeta ci apparirà senza praticamente dettagli come un'immagine confusa e sfuocata. Nessun timore, adesso toccherà ad un altro programma il compito di estrarre dall'immagine grezza tutto quello che nasconde: il lavoro di Autostakkert termina qui e posso assicurare che, a dispetto delle apparenze, lo ha eseguito in maniera egregia.

Il programma Registax può essere considerato, per certi versi, un concorrente diretto di Autostakkert!: esso è infatti in grado di eseguire tutte le elaborazioni già viste, anche se con una modalità leggermente diversa. Come di consueto esistono pareri discordanti sull'opportunità di usare Registax per affrontare l'intero ciclo elaborativo: da una parte utilizzare un solo software ha senz'altro il vantaggio di semplificare molto l'intero processo che porta all'imagine finale, dall'altra in molti sostengono che l'allineamento e lo stacking dei frame di un file video non è uno dei punti di forza di questo programma. Chi scrive ha usato per anni Registax in ogni fase dell'elaborazione con risultati abbastanza buoni, tuttavia usando Autostakkert! ha potuto constatare un netto miglioramento. Quello che però quest'ultimo software non è assolutamente in grado di fare è quello di produrre un'immagine finale in cui vengono applicati alcuni sofisticati algoritmi come l'applicazione dei wavelets e di maschere di contrasto.
Un altro problema di Registax è che non ha avuto degli aggiornamenti significativi da diversi anni, rimanendo fermo alla versione 6.1.0.8 del maggio 2011; inoltre esistono almeno altri due programmi estremamente validi direttamente concorrenti a Registax proprio nell'elaborazione fine delle immagini grezze risultanti dall'allineamento e stacking, ovvero IRIS e AstroSurface. In ogni caso Registax ha tutt'ora i suoi estimatori e si può senz'altro ritenere un software validissimo nel suo complesso e, in modo particolare e come già detto, nelle elaborazioni delle immagini grezze ottenute da Autostakkert!; è senza dubbio il caso di dargli un'opportunità di dimostrare il suo valore.

Andremo qui a esaminare il caso specifico dell'elaborazione di una immagine risultante dall'allineamento e stacking effettuata attraverso Autostakkert!, in format TIFF: avviamo quindi il programma e andiamo a selezionare la voce Select in alto a sinistra; si aprirà una finestra di dialogo per la scelta del file da caricare; selezioneremo come tipo di file "Tiff frame(s)(*.tif)" e si andrà a cercare la sottocartella dove è stato salvato il file creato da Autostakkert!. Se ne troveranno in realtà due, quello che però ci interessa è quello privo della desinenza finale "_conv", nel caso portato come esempio il file da selezionare è quindi: 21_52_11_lapl5_ap78.tif

Appena terminato il caricamento in memoria dell'immagine comparirà in alto al centro dello schermo un avviso in cui l'applicazione chiederà di effettuare un'operazione sui livelli d'intensità dell'immagine TIF (Stretch intensity-levels): si può decidere di rispondere negativamente o positivamente a questo quesito; nei casi che ho finora incontrato nelle elaborazioni delle mie immagini ho trovato che una risposta negativa pare essere più efficace, in termini di risultati finali rispetto all'accettazione dell'operazione. Come sempre suggerisco di provare entrambe le soluzioni.

Dopo qualche secondo l'immagine del nostro pianeta (Giove in questo esempio) comparirà nella finestra dell'anteprima del programma e ci troveremo direttamente nella schermata riguardante i Wavelets. Come già accennato, Registax è perfettamente in grado di effettuare tutte le elaborazioni che in questa trattazione sono state affidate ad Autostakkert!: in effetti esaminando le voci sul menu principale del programma troviamo, subito sotto a Select, alcune intestazioni di folder denominati Align, Stack e Wavelet, ovvero le tre fasi principali che portano da un file video grezzo ad un'immagine finale completamente elaborata; Registax può in realtà anche processare una serie di immagini in formato BMP e trattarle come fossero un file video. Si deve però ripetere che, secondo molti pareri compreso quello di chi scrive, Autostakkert! fornisce risultati migliori per le fasi di elaborazione che riguardano l'allineamento e lo stacking dei frame; Registax è invece uno dei software particolarmenti dotati per quello che riguarda l'elaborazione dei wavelets.
Esattamente però di cosa stiamo parlando? L'immagine TIF che abbiamo ottenuto da Autostakkert! è, a tutti gli effetti, un'immagine grezza: malgrado non si vedano, i dettagli ci sono, serve solo un piccolo aiuto che li possa evidenziare. Questo compito viene affidato all'operazione dei wavelets che sono in realtà dei filtri di contrasto disponibili su più livelli (layers), precisamente 6 in Registax, e in due fondamentali versioni: quella di default, che è quella che l'autore predilige, e quella basata sulla distribuzione delle gaussiane (Gaussian): in quest'ultima modalità è possibile operare anche una riduzione del rumore (denoise) per ognuno dei livelli previsti da Registax.

L'immagine precedente riproduce la schermata che Registax presenta prima di aver iniziato a modificare i parametri per i sei layers. A questo punto si può suggerire di lasciare inalterati i parametri in alto a sinistra, in particolare lasciando selezionata la voce "Linear" e di modificare solamente la posizione dei sei cursori in basso, trascinandoli verso destra uno alla volta: si possono registrare diversi schemi base per avere già pronte diverse soluzioni alternative e sperimentare a piacimento cercando di trovare la migliore combinazione dei layers, osservando le variazioni nell'immagine in tempo reale.
L'immagine qui a fianco riporta proprio una di queste combinazioni, probabilmente quella che l'autore usa più di frequente; i contrasti operati in questo modo sui layer permettono di mettere in risalto moltissimi dettagli: attenzione però a non esagerare per non introdurre degli artefatti. Un artefatto è un particolare dell'immagine che non esisteva nella realtà ma che viene creato in maniera incidentale dagli algoritmi di elaborazione, magari riunendo dettagli più fini o modificandone qualcuno preesistente. Un'elaborazione troppo spinta dei layers può senz'altro portare alla creazione di alcuni di questi artefatti, uno dei quali è visibile nell'immagine a destra in basso.
Le ombre dei due satelliti galileiani che si proiettavano su Giove la sera dell'osservazione, appaiono ora leggermente ellittiche, mentre nel video originale erano rigorosamente di forma circolare, come dovrebbero in realtà essere: si tratta di una sorta di artefatto introdotto dall'elaborazione. Spesso è necessario scendere a dei compromessi e accettare qualche difetto se l'immagine, nel suo complesso, può risultare accettabile. Una volta trovata la miglior combinazione possibile per i valori dei layers si può cliccare sul pulsante "Do All" posto in alto a sinistra della schermata e salvare l'immagine: non abbiamo ancora finito ma è consigliabile salvare un risultato intermedio, anche per valutare eventuali successive modifiche. Allo scopo di sperimentare altre soluzioni si può provare anche a elaborare l'immagine con le wavelets gaussiane, selezionando "Gaussian" anziché "Default" sulla sinistra: per ogni layer ora comparirà una coppia di box di selezione oltre al cursore. Il cursore definirà ancora il livello di contrasto da applicare su quello specifico layer, mentre gli altri due box permetteranno di settare sia il "denoise" cioè la riduzione del rumore di fondo sia lo `sharpen`, ovvero il livello di dettaglio. Si tratta sicuramente di una serie di settaggi che rendono la modalità gaussiana molto più completa e particolareggiata, tuttavia è necessario molto più tempo per trovare i settaggi giusti che possano dare miglioramenti significativi all'immagine finale, rispetto alla più semplice e immediata versione sotto la modalità di default; il consiglio è quello di iniziare usando la modalità di default, passando però poi a sperimentare in modo approfondito le soluzioni che possono fornire l'elaborazione gaussiana.

Come ultimo passaggio, prima del salvataggio finale dell'immagine, si può cliccare su uno dei pulsanti presenti nella parte destra della schermata, all'interno del riquadro Functions: qui troviamo il pulsante RGB Balance che apre una nuova finestra di dialogo e che contiene, a sua volta, un grafico con tre linee colorate, una rossa, una verde e l'altra blu.
Qui possiamo cliccare sul pulsante Autobalance per fare in modo che i tre canali vengano allineati in maniera automatica: le tre linee che assumono una forma come visualizzate nell'istogramma sono indice di una buona qualità della ripresa e dell'immagine finale. A questo punto si può anche andare a correggere il gamma, se lo si ritiene necessario, cliccando sul relativo pulsante e manipolando il grafico fino ad ottenere un risultato accettabile; ovviamente si possono anche modificare il contrasto e la luminosità generale dell'immagine, operando con i cursori presenti in basso a destra della schermata. Ancora un click sul pulsante Do All e poi il salvataggio dell'immagine finale che porta a termine l'intero processo di elaborazione.

Il risultato finale dell'elaborazione congiunta attraverso Autostakkert! e Registax deve essere esaminata oggettivamente e con spirito critico: forse si potrebbe sentire la necessità di apportare qualche ulteriore ritocco. Nella grande maggioranza dei casi è senz'altro preferibile astenersi dall'effettuare ulteriori forzature elaborative che potrebbero solo far esaltare maggiormente artefatti, anche perché pare piuttosto evidente che una immagine come quella qui mostrata appare già pesantemente forzata, sia come dettagli che come colori. Un passaggio forse più di altri potrebbe essere un ulteriore rimozione del rumore di fondo, possibile con l'applicazione di alcuni filtri particolari rintracciabili in software di fotoritocco come PhotoShop oppure una delle sue più valide ed economiche alternative: GIMP. L'autore usa questi software quasi esclusivamente nella post-produzione di immagini di nebulose e di oggetti celesti della categoria "Deep Sky", ripresi con lunghi tempi di esposizione tramite camere CCD o CMOS raffreddate; tuttavia in alcune occasioni si può pensare di ritoccare graficamente anche foto planetarie.






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