A 1.260 anni luce dal nostro pianeta, in direzione della costellazione di Orione, si trova una stella diecimila volte più luminosa del nostro Sole: il suo nome è Alnitak dall’arabo Al Nitak o Alnitah, ovvero “La Cintura”. In realtà con questo nome si identificano tutte e tre le stelle centrali della costellazione, includendo quindi anche le stelle Alnilam e Mintaka; per i cinesi queste tre stelle erano conosciute come “Asta della Bilancia con Peso”, ove il peso era rappresentato dalle stelle che costituiscono la Spada di Orione, dove si trova la famosa nebulosa Messier 42.
La Stella
La stella è piuttosto giovane, in senso astronomico, in quanto si stima abbia un’età di circa 7 milioni di anni: in confronto la nostra stella ha ben 4,5 miliardi anni. Ma è però normale che una stella supergigante sia così giovane: infatti non troveremo mai stelle di queste dimensioni di età molto avanzata, esse infatti hanno una vita sfolgorante ma molto breve, dilapidando tutto l’idrogeno al loro interno, che costituisce il combustibile per le reazioni di fusione termonucleare, nell’arco di poche decine di milioni di anni. E dire che di combustibile ne hanno davvero parecchio a disposizione, Alnitak ha per esempio una massa che è pari ad almeno trenta volte quella del Sole e un raggio venti volte superiore, inoltre la maggior parte della sua luminosità si esprime nelle regioni ultraviolette dello spettro luminoso, quindi non visibile all’occhio umano: a quelle lunghezze d’onda la stella è quindi ancora più luminosa, almeno ottantamila volte quella del nostro astro centrale. Dalla Terra essa appare come una brillante stella bluastra di magnitudine 1,7,m il che la rende il trentesimo astro più luminoso di tutto il cielo e la quinta stella nella propria costellazione di Orione. Ma le particolarità di questo gigante dei cieli non finiscono qui: è anche una stella doppia, con una compagna gigante blu di magnitudine 4,2 scoperta nel 1819 dall’astronomo dilettante George K. Kunowsky e posta a una distanza apparente di soli 3,2 secondi d’arco dalla principale; le due stelle sono quindi vicinissime e orbitano intorno al comune centro di massa con un periodo di circa 1.500 anni, ad una distanza media di 102 miliardi di km e con un’orbita inclinata rispetto alla nostra visuale di 72°. Se si può pensare che lo scenario sia già abbastanza interessante, ci si deve ricredere perché la situazione è ancora più complicata: nel 1998 è stata scoperto che la stella principale, denominata anche Alnitak A, ha un’altra compagna ancora più vicina della componente B e non visibile anche attraverso i più potenti telescopi. La sua presenza è stata svelata grazie a delle indagini spettroscopiche e si è potuto stabilire che la massa di questa altra stella, chiamata Alnitak Ab, è di circa 14 volte quella del Sole e una luminosità complessiva pari a 1.300 volte quella della nostra stella; la distanza media tra le due stelle non dovrebbe essere superiore ai 2,4 miliardi di km ma con una eccentricità orbitale talmente elevata che la distanza può ridursi addirittura fino a 1,4 miliardi di km. Di conseguenza il periodo di rivoluzione orbitale delle due stelle intorno al centro di massa comune dovrebbe essere di soli 7,4 anni e la separazione apparente vista dalla Terra non può essere superiore ai 42 millisecondi d’arco, ovvero 76 volte inferiore a quella che separa le componenti A e B. Tanto per avere un termine di paragone, anche se rimane un concetto difficile da accettare, la separazione apparente tra la stella A e Ab è quasi 43.000 volte minore delle dimensioni apparenti della Luna vista ad occhio nudo dalla superficie terrestre. A 57 secondi d’arco si trova poi un’altra stellina di nona magnitudine e di luminosità equivalente a 13 volte quella del Sole: malgrado si riferisca talvolta ad essa come Alnitak C essa non appare legata gravitazionalmente al sistema di Alnitak.
Nell’immagine pubblicata, da me scattata la notte del 14 ottobre 2021 alle ore 01:49 Tempo Universale (ora di Greenwich) da Sassari (Sardegna, Italia), appare assolutamente evidente la straordinaria luminosità di Alnitak e viene tradita anche la presenza della compagna B, osservando l’asimmetria dell’alone luminoso della stella. In realtà questa foto è il risultato della somma di sei differenti immagini, ognuna esposta per 10 minuti attraverso un telescopio Newton della Skywatcher del diametro di 250 millimetri e 1250 di lunghezza focale con camera CCD QHY8L raffreddata a -15°C. Nella foto sono presenti altri oggetti straordinari e solo apparentemente “estranei” alle stelle: la nebulosa “Fiamma”, nota come NGC 2024, la nebulosa ad emissione NGC 2023 che ingloba completamente una stella di magnitudine 7,8 e avente numero di catalogo HD37903 e un’altra nebulosa ad emissione, classificata come IC 434, su cui si staglia la famosissima nebulosa oscura “Testa di Cavallo” (Barnard 33). Descriverli tutti nel dettaglio sarebbe un compito veramente lungo, per cui mi limiterò a riassumere brevemente le loro caratteristiche principali.
Gli altri oggetti
Innanzi tutta la Nebulosa Fiamma, ovvero NGC 2024, che si trova a pochissima distanza apparente da Alnitak in direzione est-nord-est (in basso leggermente a sinistra nella foto): si tratta di una nebulosa diffusa composta principalmente da idrogeno ionizzato, attraversata al suo centro da una nube oscura di polvere interstellare che le conferisce la forma di una fiamma, da cui il nome. Fu scoperta visualmente da William Herschel nel 1796 ma solo con le fotografie a lunga posa si è potuto apprezzare le sue reali dimensioni apparenti pari a circa mezzo grado, equivalenti cioè alla grandezza della Luna nel cielo vista a occhio nudo, e a un diametro reale di circa 26 anni luce. La sorgente responsabile della ionizzazione dei gas della nebulosa non sembra però essere la stella Alnitak, come si potrebbe pensare: essa pare trovarsi troppo lontana perché le sue pur potenti radiazioni possano influenzare l’idrogeno della nebulosa e strappare ad esso l’unico elettrone da cui sono composti i suoi atomi; la fonte deve essere rintracciata in un gruppo di stelle giganti blu poste leggermente a sud della nebulosa e immerse in essa, tanto da risultare non visibili. Di queste stelle le due principali responsabili dei processi di ionizzazione, denominate IRS2 e IRS2b, sono state esaminate nell’infrarosso e la prima mostra anche delle misteriose emissioni di onde radio e sono localizzate ben all’interno della parte centrale oscura della nebulosa: si tratta di stelle giovanissime, ancora parzialmente immerse in quel miscuglio di gas e polveri che costituisce una sorta di “placenta” stellare. Queste vaste regioni di idrogeno ionizzato vengono anche chiamate Regioni HII e questa in particolare si trova ad una distanza di circa 1.500 anni luce dalla Terra.
Una distesa di Idrogeno
Subito a sud si trova la piccola ma ben definita nebulosa NGC 2023 che brilla per riflessione della luce che riceve dalla già citata stella HD37903 che si trova al suo interno: si tratta della parte luminosa più meridionale di quella regione chiamata Orion B che si trova ad est della cintura di Orione; insieme a Orion A, localizzata nelle regione della spada di Orione dove si trova la nebulosa Messier 42, forma il vasto Complesso Molecolare di Orione, ovvero una grande nube interstellare di idrogeno molecolare (H2) posizionata tra i 1.500 e 1.600 anni luce dalla Terra e che si estende nello spazio per centinaia di anni luce. All’interno di NGC 2023 si trovano almeno sedici sorgenti infrarosse che compongono un ammasso di stelle giovanissime e di tutte queste l’unica visibile è proprio HD37903, sia perché è la più massiccia sia perché è l’unica non oscurata dalle polveri interstellari.
La nebulosa IC 434 è invece molto più simile a NGC 2024: si tratta infatti di una nebulosa ad emissione ed è in realtà un’altra Regione HII, composta quindi principalmente da idrogeno ionizzato. Si trova ancora più a sud di NGC 2023 e costituisce di fatto il bordo sud-occidentale del complesso di Orion B: i suoi atomi di idrogeno sono eccitati dalla stella Sigma Orionis che si trova più a ovest e al di fuori dell’inquadratura della mia foto. Estendendosi in direzione nord-sud questa nebulosa raggiunge un grado e mezzo in dimensioni apparenti ed è grazie ad essa che possiamo ammirare la nebulosa oscura Barnard 33, meglio nota come “Testa di Cavallo”, che le si sovrappone sulla nostra linea di osservazione.
La Testa di Cavallo
Nota anche con il numero di catalogo Barnard 33, è probabilmente la nebulosa oscura più famosa di tutto il cielo; venne individuata per la prima volta dall’astronoma Williamina Fleming nel 1888 su delle lastre fotografiche riprese presso l’Osservatorio del Collegio di Harvad, negli Stati Uniti ed è quasi impossibile da individuare visualmente, anche con l’aiuto di potenti telescopi. E’ in realtà un insieme caotico di gas e polveri interstellari aventi una massa ventisette volte quella del Sole e la cui sagoma, solo per una fortunata coincidenza prospettica, ricorda quella della testa di un cavallo; al suo interno si trovano molte stelle neonate, che emettono soprattutto nell’infrarosso. Secondo le teorie correnti questa nube avrebbe una densità maggiore delle regioni circostanti e sarebbe in via di disgregazione ad opera dell’azione di fotolisi operata dalle potenti radiazioni emesse dalle stelle vicine, in particolare di Sigma Orionis. In sostanza l’intera nebulosa sarebbe in una fase iniziale di un processo che porterà alla formazione di un Globulo di Bok, ovvero una nebulosa oscura molto più condensata in cui si verificheranno poi i processi di formazione stellare; si pensa che sarà completamente disgregata entro 5 milioni di anni.
Questo oggetto è stato teatro di molte opere fantascientifiche: nel romanzo “Il Tiranno dei Mondi” di Isaac Asimov, che può essere considerato antecedente ai fatti narrati nella celebre saga della “Fondazione” e della caduta dell’Impero Galattico, si fa riferimento ai “regni nebulari” che si troverebbero al di là della nebulosa. Nella “Guida Galattica per Autostoppisti” di Douglas Adams il pianeta di Magrathea viene collocato all’interno della nebulosa.
Alla resa dei conti gli oggetti “estranei” vicini prospetticamente ad Alnitak non lo sono poi così tanto: si tratta solo di stadi diversi della materia nel quadro generale dell’evoluzione stellare. La grande e possente stella gigante proviene da una nube stellare fatta di gas e polveri, proprio come quelle che la circondano e da cui, in fin dei conti, proveniamo noi stessi.
La fotografia
All’inizio di questo breve intervento avevo già accennato ai dati tecnici relativi alla ripresa fotografica, volevo qui ora entrare nel dettaglio anche per fornire qualche indicazione utile e per alcune considerazioni finali. L’immagine pubblicata è il risultato della somma di sei esposizioni da 10 minuti l’una eseguite con un telescopio Newton della Skywatcher del diametro di 250mm e lunghezza focale 1.250 (f/5); la camera di ripresa era una CCD QHY8L raffreddata a -15°C, il tutto su una montatura equatoriale della Skywatcher EQ6Pro. La guida è stata realizzata con un rifrattore 60/700 montato in parallelo al tubo principale a cui è stata collegata una camera CMOS ZWO ASI 120MC, il tutto pilotato dal software PHD2; la montatura stessa era sotto il controllo del programma SkyChart (Cartes du Ciel). L’acquisizione è stata portata a termine con il software APT (Astro Photography Tools), mentre l’elaborazione è stata eseguita con Maxim DL4 con ritocchi finali tramite GIMP ed altri programmi di elaborazione grafica e fotoritocco.
Le considerazioni
Fotografare un oggetto del genere comporta una notevole quantità di problemi, dal punto di vista della corretta esposizione: come per il caso della Nebulosa di Orione (Messier 42), abbiamo una parte dell’inquadratura occupata da una sorgente luminosa piuttosto vivida e un’altra molto più debole ed evanescente. In questo caso ci troviamo di fronte alla presenza nel campo fotografico della stella Alnitak che è la sorgente più luminosa e le nebulose intorno molto meno luminose; nella Nebulosa di Orione è proprio il centro della nebulosa stessa ad essere estremamente luminoso. Tutto questo comporta che volendo regolarsi sul soggetto più luminoso le deboli velature delle nebulose non verrebbero mai registrate, viceversa se ci si regola sui soggetti più deboli avremo una sovraesposizione di quelli più luminosi, come è accaduto in questo caso. La necessaria precisazione è quindi che il risultato presentato è stato esattamente quello voluto: sia per registrare anche le deboli nebulosità ma, soprattutto, per evidenziare nella giusta proporzione proprio Alnitak che era, tutto sommato, il soggetto principale di questo articolo. Si poteva senz’altro ottenere un risultato diverso operando in maniera più articolata, ovvero registrando molte più immagini con tempi di esposizione diversi: provvedendo poi a “fondere” insieme tutte le foto elaborate si sarebbe ottenuto il risultato di bilanciare meglio l’intera inquadratura. Non mi addentrerò ora nei dettagli di questa tecnica, tuttavia è particolarmente efficace anche se richiede una discreta dose di lavoro in più. Le esposizioni per poter registrare le tenue nebulosità devono essere le più lunghe possibili, compatibilmente con lo stato del cielo, la presenza di inquinamento luminoso e le problematiche relative all’inseguimento dell’oggetto nel suo moto apparente sulla volta celeste; nel mio caso, condizionato più che altro dall’inquinamento luminoso, non mi è praticamente mai possibile superare i 10 minuti, quindi possono esporre per quel tempo massimo e realizzo un buon numero di esposizioni per cercare di ridurre il rumore di fondo. Sommando più immagini con lo stesso tempo di esposizione è infatti molto utile per ridurre il rumore di fondo e non, come alcuni erroneamente pensano, per acquisire più segnale e registrare più dettagli deboli: un’esposizione da 10 minuti potrà registrare solo una certa quantità di fotoni, per raccoglierne di più sarà necessario esporre per più tempo; sommare cento immagini da 10 minuti non aumenterà la quantità di informazioni registrate dal sensore CCD o CMOS in quanto tutto ciò che poteva essere registrato era già presente fin dalla prima esposizione. In questo senso anche le immagini realizzate con tempi totali di integrazione di diverse ore non presentano una quantità maggiore di dettagli di quelle eseguite con tempi sensibilmente più brevi. La somma di tutte quelle esposizioni porterà senz’altro ad una diminuzione del rumore di fondo ma, oltre un certo limite, non vi saranno dei miglioramenti significativi. Bisogna tener presente, inoltre, il tipo di camera con cui si riprende; con una CCD, come nel mio caso, saranno senz’altro preferibili poche pose più lunghe possibili, con una CMOS potrebbe essere necessario orientarsi su pose più brevi. Molti fattori concorrono alla determinazione di questi elementi, non ultimi il tempo di saturazione dei pixel del sensore e le dimensioni degli stessi, oltre al suo indispensabile raffreddamento. L’argomento rimane aperto ed è il campo di accese discussioni tra gli appassionati.
Massimo Dionisi