Dopo più di un anno ho tentato nuovamente una ripresa di una delle più famose ed iconiche nebulose visibili nei nostri cieli, la Helix Nebula nella costellazione dell’Acquario. Fotografare dalle nostre latitudini quest’oggetto è abbastanza difficile: non si alza mai molto rispetto all’orizzonte e risente quindi dell’assorbimento atmosferico e della luminescenza notturna, nota con il termine inglese di airglow, più accentuata vicino all’orizzonte e incrementata dall’ormai onnipresente inquinamento luminoso. Se si osserva infatti da zone non completamente buie, come avviene per l’autore che ha la sua postazione principale sotto un cielo suburbano, l’airglow viene amplificato in maniera drammatica e rende veramente difficile elaborare le immagini faticosamente ottenute nelle lunghe sessioni notturne. Detto questo, forse più che altro per giustificare me stesso dei risultati non eccelsi finora ottenuti ma anche per continuare a convincermi a riprovare testardamente ogni anno, ottenere un’immagine decente della Helix Nebula è forse quanto di più gratificante possa esserci per un appassionato di astronomia e fotografia, visto la sfida che questo oggetto pone ogni volta.
Helix Nebula, foto Massimo Dionisi
Questa immagine è stata ripresa il 6 settembre 2021 ed è il risultato di una sequenza di dodici fotografie realizzate con un telescopio a riflessione di tipo newtoniano della Skywatcher del diametro di 250 millimetri e 1250 di lunghezza focale, quindi con un rapporto di apertura pari a f/5, e la camera utilizzata è stata una CCD QHY8L raffreddata a -15°C, il tutto su una montatura equatoriale, ancora della Skywatcher, EQ6 Pro. La guida, indispensabile per esposizioni prolungate, è stata realizzata con un telescopio rifrattore posto in parallelo al telescopio principale, del diametro di 60 millimetri e 700 millimetri di lunghezza focale e una camera CMOS ZWO ASI 120MC: grazie all’applicazione PHD2 è stato possibile guidare in automatico. L’acquisizione delle immagini è stata effettuata con il programma APT (Astro Photography Tool) ed ognuna delle dodici riprese ha avuto un tempo di esposizione pari a cinque minuti. Nelle immagini seguenti ho “congelato” due momenti di come appariva la nebulosa attraverso il software di acqusizione APT e di quello che compariva nella schermata dell’applicazione PHD2.
Una delle esposizione da cinque minuti della Helix Nebula registrata con APT, l’immagine è ancora ovviamente “grezza”, non elaborata
La debole stella di guida utilizzata per compensare gli errori di stazionamento in polare della montatura EQ6Pro: anche in presenza di un buon allineamento al polo è sempre indispensabile guidare, meglio se in automatico con un software come PHD2. La stella è visibile come un debole puntino luminoso all’incrocio delle due linee verdi.
E’ stato altresì anche usato un filtro per tentare la riduzione degli effetti dell’inquinamento luminoso, chiamato filtro UHC, della Astronomik: tuttavia il risultato finale mostrava così tanto rumore di fondo, dovuto proprio all’inquinamento luminoso, che si è dovuti ricorrere all’aiuto di un grafico esperto in fotoritocco, Simone Dionisi (https://www.artstation.com/simonedionisi), che ha migliorato grandemente l’immagine rendendola presentabile utilizzando il software di elaborazione grafica e fotoritocco GIMP.
Questo per quello che riguarda la parte strettamente tecnica riguardante la realizzazione ed elaborazione della foto, però ritengo necessaria e doverosa anche una trattazione particolareggiata del soggetto, di questa straordinaria nebulosa sia da un punto di vista storico sia fisico.
Vi chiedo ora di provare ad usare la vostra immaginazione e di fare un tuffo indietro nel tempo, in un remoto passato di oltre diecimila anni fa. A quell’epoca i nostri antenati si stavano diffondendo in un continente europeo che si stava lentamente liberando dalla gelida morsa dell’ultima glaciazione; popoli di cacciatori nomadi che stavano imparando l’uso del fuoco e dei primi rudimentali attrezzi e che, nello stesso tempo, cominciavano a sfruttare altre risorse della terra come la raccolta di erbe e radici ed a sviluppare i primi rudimenti della pesca. Stavano insomma ponendo le basi per i primi insediamenti stanziali, abbandonando la vita nomade e come preludio all’invenzione dell’agricoltura, pietra miliare e svolta fondamentale nella storia dell’umanità. Come per altri fondamentali eventi, fu la parte femminile della popolazione la probabile protagonista della svolta epocale che stava per maturare: mentre gli uomini continuavano ad organizzare la caccia spostandosi nei territori circostanti gli accampamenti, le donne custodivano i figli più piccoli e curavano l’insediamento, trasformandolo progressivamente da nomade a stanziale. Sempre loro provvedevano alla pesca ed iniziavano a praticare una primitiva agricoltura, acquisendo pratica nella semina e spingendo sempre di più verso la stabilizzazione della tribù su un territorio preciso. Fu proprio in quel periodo che, probabilmente, alcuni dei membri di quelle tribù primitive cominciarono a cercare di rintracciare nel cielo segni e configurazioni perché fossero di aiuto nelle attività quotidiane o fornissero auspici sul futuro. Forse furono proprio le donne le prime ad osservare il cielo, le prime sacerdotesse di culti di là da venire e che, in una scura notte di quell’era Paleolitica, scorsero lo spettacolo di una stella che esplodeva in un punto del cielo che solo molto più tardi sarebbe stato associato alla costellazione dell’Acquario, per un mito che sarebbe diventato tale solo dopo migliaia di anni.
Ricostruzione del possibile aspetto del cielo di una notte estiva di circa 10.000 anni fa, nel periodo Paleolitico. Poco sopra la stella Fomalhaut, nella costellazione del Pesce Australe, si “accese” nel cielo una stella brillantissima.
Qui noi abbiamo immaginato quella grande luce nel cielo accendersi in una fredda nottata di un mese, che i posteri avrebbero chiamato agosto, ancora oppresso dai residui della Grande Era Glaciale che lentamente regrediva verso nord. Non sappiamo quando avvenne effettivamente il fenomeno ma la nostra ricostruzione storica potrebbe essere anche abbastanza attendibile. Non sappiamo nemmeno quali emozioni suscitò ai nostri antenati la visione di quella luce abbagliante nel cielo, che brillò sicuramente per diversi giorni più di Venere e che probabilmente rivaleggiò con la luminosità della stessa Luna. Ci è completamente sconosciuto il fatto se furono tratti auspici favorevoli oppure nefasti da questo evento e nemmeno se influenzò in qualche modo la semplice e difficile vita quotidiana di quelle tribù; sicuramente fu talmente evidente da essere notata e ricordata a lungo nella memoria, tramandata oralmente di generazione in generazione attraverso i tempi, in un mondo che avrebbe inventato la scrittura diverse migliaia di anni più tardi.
La Grande Luce nel Cielo era una stella che moriva o, per meglio dire, terminava quella parte della sua vita passata ad elargire luce ed energia in maniera tranquilla e misurata, forse dispensandola ad un corteo di pianeti che la accompagnava, non molto diversamente dal nostro Sole; la stessa massa di questa stella non poteva essere troppo differente da quella del nostro astro diurno, al massimo il doppio. Quando però l’idrogeno contenuto nel suo nucleo fu tutto trasformato in elio dalle reazioni termonucleari, quella sfortunata stella cominciò a diventare instabile. La sua parte interna si contrasse ed aumentò incredibilmente la sua temperatura, tanto che iniziarono i processi di fusione termonucleare che trasformavano l’elio in elementi più pesanti, come il carbonio. Intanto le parti più esterne, compresa la sua atmosfera, si espansero e il suo diametro aumentò mostruosamente. Quel nuovo abnorme oggetto celeste era una gigante rossa: i suoi pianeti, ammesso che fossero mai esistiti, che le orbitavano intorno furono tutti consumati, inghiottiti nella fornace rovente dell’atmosfera della gigante rossa e bombardati da flussi di radiazioni in grado di strappare via ogni brandello di atmosfera e cancellare ogni possibilità di vita.
Il processo di formazione del carbonio all’interno di una stella nelle fasi finali della sua evoluzione. Grazie all’elevatissima temperatura nel centro della stella, i nuclei di elio si fondono per formare berillio, che però è altamente instabile. Un’ulteriore fusione con atomi di elio produce alla fine carbonio stabile. L’intero processo viene chiamato “triplo alpha” (immagine tratta da Wikipedia Creative Commons)
La produzione di energia all’interno della stella aveva ora ben due fonti: dal nucleo dove l’elio si trasformava in carbonio e dalle zone immediatamente circostanti, dove l’idrogeno residuo continuava a trasformarsi in elio. Però la fine era ormai prossima: la massa della stella non poteva sostenere ulteriori processi termonucleari e si erano create fortissime instabilità interne che avevano probabilmente portato alla manifestazione di pulsazioni irregolari. Nel momento che la produzione di energia nel nucleo stellare cessò, con l’elio trasformato in carbonio e forse anche una piccola parte in ossigeno, la materia cadde letteralmente su sé stessa, con gli elettroni che si addensarono per creare uno strano stato degenerato della materia. Il nucleo quindi si “raggrinzì”, compattandosi in un oggetto caldissimo e molto piccolo, avente le dimensioni più o meno della Terra ed una massa pari all’incirca a quella del Sole: un oggetto superdenso con una temperatura superficiale di 100.000 gradi, fonte di emissioni di potenti raggi X e visibile come una stellina di tredicesima magnitudine, cioè mille volte meno luminosa della stella più debole percepibile a occhio nudo. L’intero processo di contrazione è in realtà ancora in atto e porterà alla creazione di una nana bianca che si raffredderà progressivamente.
Struttura interna di una gigante o supergigante rossa nelle ultime fasi dell’evoluzione stellare
Struttura interna di una nana bianca con una superficie caldissima e un nucleo di carbonio e ossigeno ma in forma degenerata, con gli elettroni super compressi dalla fortissima gravità. L’aspetto di questo nucleo potrebbe quasi somigliare a quello di un cristallo.
Nel contempo però le parti più esterne della stella subirono un violentissimo processo di espulsione verso l’esterno, una vera e propria esplosione. La sua atmosfera fu proiettata ad altissima velocità nello spazio interstellare a causa dell’esplosione dell’involucro di idrogeno che circondava il nucleo e che si stava trasformando in elio con le reazioni termonucleari.
Tutto questa materiale si allontanò dal nucleo stellare ad altissima velocità, con le sue parti più esterne che ancora oggi si muovono ad una velocità di 40 chilometri al secondo. Nelle migliaia di anni trascorsi dall’esplosione si è creata una vera e propria nebulosa, chiamata “nebulosa planetaria” perché ai primi osservatori questo tipo di oggetti ricordavano nell’aspetto dei piccoli dischi planetari. In realtà essa ha una estensione di 2,5 anni luce e si trova a ben 650 anni luce dalla Terra; la sua forma dovrebbe essere quella di una sferoide che noi però percepiamo in maniera bidimensionale come un anello circolare leggermente schiacciato in forma ellittica, delle dimensioni apparenti pari alla metà circa della Luna Piena. Malgrado queste relativamente grandi dimensioni, almeno per un oggetto del suo tipo, la sua luminosità superficiale è abbastanza bassa, il che accentua le difficoltà di ripresa fotografica citate inizialmente, casomai fosse necessario complicarle ulteriormente. Visualmente, a patto di avere a disposizione un cielo buio, la nebulosa può essere già avvistata con un semplice binocolo; ovviamente simile nell’aspetto ad un piccolo ed evanescente anello di fumo perso nel buio della notte e priva completamente di colori: quelli possono essere ammirati solo attraverso le foto a lunga esposizione come quella dell’autore presentata all’inizio di questo articolo; nei piccoli telescopi sarà bene utilizzare bassi ingrandimenti per percepirla meglio.
All’interno della nebulosa sono stati identificate almeno 40.000 formazioni denominate “noduli cometari” per via della loro forma. Si tratta di condensazioni di gas molecolare aventi ognuna dimensioni medie paragonabili a quelle del nostro sistema solare ed accompagnate da una specie di “coda” di aspetto cometario posta in posizione opposta alla stella centrale della nebulosa; la parte del nodulo opposta alla “coda” mostra fenomeni di ionizzazione con cuspidi luminose. Questi noduli cometari nella Helix Nebula furono i primi ad essere identificati all’interno di una nebulosa planetaria, in seguito furono trovati anche in altre nebulose dello stesso tipo.
Classificata con il numero 7293 nel catalogo NGC (New General Catalogue of non-stellar object) fu chiamata Helix Nebula per via della suo aspetto e, a partire dagli anni duemila prima “Eye Of God” e poi anche “Eye Of Sauron” con chiaro riferimento al malvagio personaggio dei romanzi di J.R.R Tolkien nel suo “Signore degli Anelli” e della sua fortunata e pluripremiata trasposizione cinematografica.